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INTERVISTA
Jean Luc Nancy
Come cambia la libertà
di Pietro Del Soldà

"Da principio" – racconta a Socrate il vecchio sofista Protagora nel dialogo di Platone a lui dedicato – gli uomini, già abili in tutte le arti e legati al divino cui innalzavano altari e statue, "vivevano sparsi qua e là, e non esistevano Città". Solo in seguito, per difendersi dalle fiere e dai pericoli della natura, gli uomini, già compiuti in se stessi, si unirono ed accettarono i limiti della giustizia per convivere in pace. Si inaugurava così la millenaria storia di un uomo che si conosceva come individuo indipendente dalla relazione e dalla comunità con gli altri uomini, con i quali si alleava per mere esigenze di sicurezza e per volontà di un dio trascendente.

Ma questa storia, la storia dell'occidente, volge ormai al termine nella visione del filosofo francese Jean Luc Nancy, forse la voce più nuova e profonda del pensiero francese di oggi. Nelle sue opere, da La comunità inoperosa (Napoli, 1992) sino a Essere singolare e plurale, testo del '96 che Einaudi pubblica oggi introdotto da un dialogo con Roberto Esposito, l'occidente appare come un orizzonte determinato dalla continua ricerca, oltre i confini del mondo, di un principio trascendente che doni senso all'esistenza. Ricerca che si è ormai conclusa senza esito: "Dio è morto" come annunciava lo Zarathustra di Nietzsche, e ciò, dice Nancy, muta radicalmente il significato della relazione tra gli uomini, della comunità, e, con essa, dell'idea di libertà. Tramonta l'immagine di un uomo-soggetto che dispone della relazione con gli altri uomini e che vive la libertà come una proprietà, come un diritto e, infine, come autosufficienza e indipendenza dalla comunità umana.

Professor Nancy, come cambia l'idea di libertà dinanzi all'annuncio della morte di Dio?
Innanzitutto, per morte di Dio, espressione che spesso suona scioccante, non intendo la morte del dio della fede, ma la fine di un pensiero che pone un essere supremo come causa e fine del mondo. Di fronte a questo essere supremo, la libertà è vissuta come libertà di scegliere il bene e l'amore di dio contro il male e il rifiuto di dio. Allo stesso modo, in termini secolarizzati, tale libertà è nella scelta del bene o del male secondo un certo fine della storia o una certa visione dell'umanità da realizzare. Con la morte di dio il mondo non ha più né principio né fine e la libertà emerge come il "fatto" di essere gettati nell'esistenza, senza più la necessità né di un principio né di un fine. Potrei dire che si tratta di una libertà d'invenzione e non più di una libertà di scelta. La libertà di scelta, il libero arbitrio della tradizione occidentale, presuppone una conoscenza di cosa è bene e cosa è male che precede la decisione. Al contrario, ciò che io chiamo libertà d'invenzione non presuppone più alcun sapere su cui la mia decisione si possa fondare.
La libertà, lei dice, non è più libertà "da" qualcosa, non più diritto o dispensa da un obbligo imposto dalla comunità, anche se come tale continua ad essere proposta e vissuta nelle nostre democrazie liberali. Libertà e comunità non sono più opposti e paiono quasi coincidere nelle sue parole.
La libertà d'invenzione è innanzitutto libertà che mi mette in rapporto con gli altri uomini e con tutto il resto del mondo. La libertà è la posizione di un rapporto che non ha un fine, che non ha un obbiettivo aldilà di se stesso. La relazione con gli altri uomini emerge allora come qualcosa che precede e rende possibile il rapporto di ogni uomo con se stesso.
La morte di dio è la scomparsa di un essere supremo che doni alla comunità un principio ed un fine comuni aldilà della relazione. A partire dal momento in cui la comunità non è più qualcosa di dato dall'alto, di governato da un essere supremo, si produce la dispersione del soggetto, di un'identità forte della comunità che doni un senso e un obbiettivo all'esistenza e alle relazioni: la relazione stessa è l'origine. Si dissolve così l'immagine, che ha dominato la tradizione occidentale, dell'uomo come soggetto che tende ad un fine, ad un'identità che sta oltre la relazione con gli altri. Quando si esaurisce la tensione metafisica a questa identità trascendente, la relazione, non più rinviante ad un essere che la trascende, si manifesta come l'orizzonte insuperabile dell'esistenza, senza fine e sempre inventata.
A questo pensavo l'altro giorno visitando l'esposizione degli Etruschi. Quando guardi i volti della pittura e della scultura etrusca scorgi l'identità della comunità che si ripete in ogni immagine: questa è la comunità data, donata dall'alto. Gli Etruschi erano un popolo che viveva in comunità organizzata secondo i propri miti, i propri dei, i propri fini. Al contrario, quando pensiamo al realismo delle rappresentazioni occidentali moderne, scorgiamo la fine di una comunità già data e organizzata: la singolarità di ciascuna rappresentazione assume valore assoluto in se stessa, ma anche in virtù della differenza dalle altre, e dunque in virtù della relazione.
Questa "relazione inventata", che in sé raccoglie l'intera esistenza, è universale: l'occidente dunque, facendo esperienza dell'assenza di un fondamento supremo, pare aprire un cammino che coinvolgerà il mondo intero. La filosofia, la ricerca di un senso del mondo, viene a coincidere col mondo stesso, e in questo movimento, lei dice, da esperienza occidentale si fa esperienza mondiale, "la mondanizzazione della filosofia coincide con la sua mondializzazione". Che rapporto c'è tra questa mondializzazione e la nozione comune di globalizzazione dell'economia e delle tecnologie?
La nozione "comune", lei dice…è interessante notare come l'occidente conosca due sensi della parola comune, come relazione nel senso detto, ma anche come banalità, trivialità. Noi viviamo in un mondo che ha di se stesso, della comunità una visione "comune" appunto, banale, volgare. Tale visione della società, ad esempio, americana ci è proposta dal suo cinema, e tale visione comune del mondo condanna senz'appello la globalizzazione, il capitalismo che domina il mondo accrescendo la povertà. Tutto questo è vero, l'avanzamento della tecnica ha condotto l'uomo, per la prima volta, di fronte alla possibilità del proprio annientamento. Con la seconda guerra mondiale si è conclusa la fede nella positività della tecnica. E tuttavia, emergendo l'ambivalenza della tecnica, che può produrre il meglio o il peggio, dev'essere chiaro che la tecnica non ha fine, e che dunque espone l'uomo all'assenza di un fine. La tecnica è la messa in atto di un'assenza di fine, e in questo offre all'uomo l'opportunità straordinaria di pensare "senza un fine". Analogamente Marx, se pur in termini differenti, non diceva semplicemente "abbasso il capitalismo", ma sosteneva che il capitalismo ha una missione storica: pervenendo ad uno stadio mondiale, producendo un mercato mondiale, una dimensione mondiale, fornisce in tal modo la possibilità oggettiva della rivoluzione. Solo attraverso questa mondializzazione del capitalismo, pensava Marx, la rivoluzione della proprietà dei mezzi di produzione può offrire all'umanità intera la possibilità di gioire della produzione.

Pietro Del Soldà
per gentile concessione di il Nuovo



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31 maggio 2001